(Teleborsa) – Le nuove regole di voto per le assemblee delle società quotate, introdotte dalla Legge Capitali, possono produrre impatti di rilievo e – in casi specifici – ribaltare l’esito dell’assemblea, portando a una potenziale instabilità degli assetti di governance e a un incentivo a creare blocchi di disturbo. È quanto emerge da uno studio di FIN-GOV, il Centro ricerche finanziarie sulla corporate governance dell’Università Cattolica, a cura di Massimo Belcredi e Stefano Bozzi.
Lo studio ha indagato gli effetti dell’applicazione delle nuove norme sulla “lista del CdA“, introdotte dalla Legge Capitali e di recente duramente criticate anche dall’International Corporate Governance Network (ICGN), un gruppo di asset manager con 77 mila miliardi di dollari in gestione. I grandi investitori globali hanno scritto il mese scorso una lettera al sottosegretario del MEF, Federico Freni, affermando che le nuove regole “potrebbero minare gli standard di governance aziendale del paese e danneggiarne la competitività”.
Il lavoro di Belcredi e Bozzi presenta un’analisi quantitativa del fenomeno “lista del CdA”, analizzando 18 assemblee del periodo 2021-24 in cui il CdA uscente ha presentato una propria lista, mostrando gli esiti del voto e indagando, attraverso un’analisi di simulazione, gli impatti della nuova normativa. Negli ultimi anni una cinquantina di società italiane quotate (circa un quarto del listino) ha attribuito al CdA la facoltà di presentare una propria lista di candidati. Circa un terzo tra esse ha visto l’effettiva presentazione di una lista del CdA, prassi che si è concentrata tra le società ad azionariato diffuso o comunque prive di azionisti di controllo. “La presentazione delle candidature da parte del board, predominante a livello internazionale, si è sviluppata in Italia nel silenzio della legge, senza particolari problemi”, si fa notare.
La legge Capitali, approvata a marzo 2024, ha rivoluzionato la materia, introducendo una normativa che lascia margini ristretti all’autonomia statutaria e genera importanti dubbi applicativi. L’analisi dello studio di Fin-Gov mostra che il risultato delle elezioni per il nuovo CdA dipende in maniera cruciale da due fattori: a) la “legge elettorale” adottata (sistema proporzionale puro vs maggioritario); b) il comportamento (passivo vs attivo) degli azionisti.
Il primo profilo è importante perché la legge Capitali non chiarisce se le società possano continuare a fare uso del sistema maggioritario, limitando l’applicazione del proporzionale puro al “riparto tra liste di minoranza”, ovvero se il sistema proporzionale puro debba applicarsi anche al “riparto tra maggioranza e minoranze”. Se si ammette che le società possano conservare libertà statutaria nell’individuare i posti spettanti alle minoranze, gli impatti sul riparto dei posti tra liste sono contenuti. Dove i voti conseguiti dalle liste dei soci sono inferiori o pari al 20%, la variazione rispetto allo status quo è addirittura trascurabile; dove sono superiori al 20%, se si ammette la fissazione di un cap ragionevole ai posti di minoranza, le modifiche degli assetti di governance sarebbero comunque minime. Se si ipotizza invece che la legge imponga il metodo proporzionale puro nel riparto di tutti i posti in consiglio, si apre un vero e proprio vaso di Pandora. Se si ipotizza che gli azionisti assumano un atteggiamento passivo, le uniche assemblee impattate in modo significativo sarebbero le due ampiamente citate nel dibattito sulla stampa negli ultimi mesi: Generali e Mediobanca. In particolare, gli azionisti (Caltagirone e Delfin) critici verso l’attuale management otterrebbero un sostanziale potere di veto sulla presentazione di candidature da parte del CdA uscente. Nessun’altra società sarebbe impattata nello scenario in esame.
Ma lo studio Fin-Gov mostra che il vero punto sta altrove: al mutare delle regole i soci possono ritirare vecchie/presentare nuove liste e votare in modo differente. Se i soci influenti (chi detiene più del 10% del capitale) adottano un comportamento attivo, in presenza di un sistema proporzionale puro, l’esito del voto può cambiare in modo radicale: in varie società potrebbero essere eletti board spaccati e poco governabili; in alcuni casi (vedi ultima assemblea di Tim) si può avere un ribaltamento delle maggioranze assembleari e la presa del board da parte di soci di minoranza. In altre parole, basta ipotizzare che gli azionisti – come è logico – ragionino strategicamente e si vede subito la nuova legge crea notevoli opportunità di attivismo a soci rilevanti già presenti nell’azionariato. In sintesi, essi possono cogliere l’occasione offerta dalle nuove regole per acquisire una posizione forte all’interno del consiglio; in casi particolari, essi possono addirittura ribaltare l’esito della votazione e conquistare la maggioranza dei seggi. Quello che gli autori chiamano “l’esempio più spettacolare” è l’assemblea 2024 di Telecom Italia, in cui l’azionista Vivendi – se le nuove regole fossero state già in vigore – avrebbe potuto ottenere la maggioranza dei seggi, con conseguenze facilmente immaginabili per i progetti di ristrutturazione e di cessione della rete.
“La legge Capitali detta, unica al mondo, regole asimmetriche che favoriscono gli azionisti attivi e la creazione di posizioni di disturbo, soprattutto se dovesse prevalere un’interpretazione rigida che imponesse l’applicazione del sistema proporzionale puro – si legge nel rapporto – Ciò genera conseguenze paradossali e non desiderabili, tra cui un disincentivo a presentare liste del CdA, che la legge dichiara di voler regolare, non sopprimere. È opportuno un intervento chiarificatore del legislatore che affermi, in linea con l’ordine del giorno approvato dalla Camera contestualmente alla legge Capitali, che il numero di posti riservati alle minoranze va lasciato all’autonomia statutaria”.
Lo studio di Fin-Gov esamina infine il sistema a doppio turno imposto dalla legge Capitali. La legge prevede un secondo voto (referendum) sui singoli candidati della lista del CdA, se questa risulta maggioritaria, ma non chiarisce chi è legittimato a votare al secondo turno (solo chi ha votato la lista del CdA al primo turno? O tutti coloro che hanno “espresso voti”?). “Il sistema induce i soci ad adottare strategie di voto complesse”, viene sostenuto. L’analisi mostra che – al secondo turno – gli investitori istituzionali sarebbero sovente arbitri del destino di questo o quel candidato, soprattutto se al voto potessero partecipare tutti i soci. Tale effetto è destinato ad essere visto con favore da istituzionali e proxy advisors, anche se non necessariamente da parte degli emittenti; la norma pare destinata ad aumentare l’attrattività del mercato dei capitali italiano per gli investitori, anche esteri. Mantenere il secondo turno ma consentire il voto solo a chi ha sostenuto la lista del CdA al primo turno ridurrebbe i problemi di sistema e potenzierebbe il ruolo degli investitori istituzionali senza generare eccessivi rischi di manovre strategiche e accordi sottobanco.
In sintesi, l’analisi svolta da Fin-Gov mostra che “le nuove regole di voto possono produrre impatti di rilievo e – in casi specifici – ribaltare l’esito dell’assemblea. Ne risultano una potenziale instabilità degli assetti di governance e un incentivo a creare blocchi di disturbo, che paiono meritare un supplemento di riflessione da parte del legislatore, soprattutto nel senso di lasciare maggiore spazio all’autonomia statutaria degli emittenti”. L’analisi mostra inoltre che “gli investitori istituzionali assumono un ruolo importante e, talora, decisivo al secondo turno, potendo decidere spesso in autonomia se confermare o bocciare i singoli candidati nella lista del CdA, soprattutto se operano in modo coordinato o seguendo le indicazioni dei proxy advisors. Anche qui, un intervento del legislatore sembra necessario per chiarificare dubbi interpretativi sulla legittimazione al voto”.